Impegnata in zone di guerra come cronista de Il Manifesto, fu rapita il 4 febbraio 2005, fu liberata il successivo 4 marzo con un’operazione costata la vita all’agente del Sismi Nicola Calipari. Racconta quest’esperienza in uno dei suoi libri – Fuoco amico, 2005 –, si occupa inoltre di temi relativi la cultura islamica e la condizione delle donne nei paesi musulmani – scrivendone in alcuni libri tra cui Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne, 2008 e Dio odia le donne, 2016 –. Quando le chiedo se può rispondere ad un paio di domande per Orione, lei senza esitazione mi dice di sì. Sono naturalmente emozionata, rintracciando in lei non solo un esempio di persona forte e coraggiosa, ma anche una giornalista senza paura. La cosa che più mi piace di lei è la narrazione al femminile, che rappresenta autorità e competenza.
Come vede i luoghi da Lei vissuti al di là del confine: favoriscono o inibiscono le contaminazioni tra persone di diverse culture? E qual è il vantaggio o lo svantaggio di questa contaminazione?
Attraversare confini con l’obiettivo di conoscere altri luoghi, altre culture favorisce sicuramente la contaminazione, che è positiva se serve ad arricchire i protagonisti dello scambio. Dipende dall’approccio. Non può esserci nessuna contaminazione se si è ostili a tutto quello che è diverso da noi (ma non occorre andare oltre i confini per verificare questa chiusura mentale che si traduce in razzismo). Non ritengo positivo nemmeno l’atteggiamento di chi apprezza negli altri popoli solo quello che è più diverso da noi, perché questa posizione si basa su una discriminazione che è una forma diversa di razzismo. Quindi occorre partire da noi, dalla nostra cultura, senza preclusioni per superare tutte le diffidenze e fare in modo che la contaminazione sia proficua.
Sul confine di genere: uomo e donna. Nel Suo ultimo libro, Lei racconta
del forte controllo che le religioni esercitano sulla donna. Quale forza può trarre dal suo stesso essere femminile?
La mia forza deriva dalla coerenza e dai rapporti che ho costruito, in tutti i paesi che ho frequentato, con le donne di quei luoghi. Sono state loro a fornirmi la «chiave» per affrontare mondi dove le donne sono particolarmente oppresse e discriminate. E ovunque ho trovato donne che lottano per i loro diritti, spesso ignorate. Io ho cercato di dare voce a chi non ha voce, le donne per l’appunto.
Cosa spinge una donna a vivere e lavorare sui confini? Qual è la motivazione più intima che ha creato in Lei una così forte attrazione da farLe scegliere di non lavorare dietro una scrivania?
Prima ancora di scegliere il mio mestiere, avevo scelto di studiare lingue per conoscere altri mondi. Quando mi è stata data da possibilità di iniziare a scrivere (sempre di questioni internazionali) il giornalismo è diventato il mio mestiere. E il giornalismo non si può fare da dietro una scrivania: occorre cercare le notizie, verificarle. Ora è diventato un mestiere pericoloso in luoghi di conflitto, dove sono stata spesso, tanto da mettere a rischio la possibilità di informare. Perché non credo che l’alternativa sia il giornalismo «embedded», ovvero al seguito degli eserciti, con un’unica prospettiva che è quella militare.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.12, “LA LINEA DI CONFINE”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — DICEMBRE 2017
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