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Io sono nato ipovedente medio/grave a causa della retinite pigmentosa.

Questo tipo di malattia comporta una visione solo se in condizione ottimale: si vede solo se si è in presenza di una buona e uniforme illuminazione, perdendo lentamente la percezione visiva fino alla cecità assoluta nell’arco di quaranta anni e percependo solo le fonti luminose ancora per altri venti. Potrebbe sembrare un dettaglio di nessuna importanza, vi assicuro che, nonostante tutto, è una utilissima risorsa per interagire con la realtà circostante. Attualmente la mia condizione è che passando dalle zone d’ombra a quelle assolate, ho la sensazione della luce solare, sensazione che svanisce in pochi secondi. Per me dunque è indispensabile, per la conoscenza e la comprensione della realtà circostante, che questa sia accessibile. Accessibilità vuol dire tante cose: ad esempio, se sono in un locale con degli amici, la musica potrebbe essere una barriera se molto alta, distraendo il mio udito e non facendomi concentrare sui rumori di sfondo che mi aiutano a capire cosa mi succede intorno. Essere una persona con il senso della vista integro è molto diverso da essere una persona con deficit visivo: le medesime informazioni possono essere fruite in misura e modalità differente dai due soggetti. Le coppie di significati di parole come silenzio-rumore, luce-buio assumono una diversa connotazione. Per quanto riguarda l’interpretazione delle informazioni socio-ambientali, fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo e ancor di più per uomini e donne con deficit visivo, l’accessibilità si manifesta attraverso diversi linguaggi, dove per linguaggio intendo l’insieme di tutte quelle regole che servono per scambiare informazioni con la realtà circostante. Quando ero ipovedente credevo di disporre delle stesse informazioni sonore e gestuali che ricevevano gli altri. Invece con il tempo mi sono reso conto che le informazioni non verbali che raccoglievo erano veramente poche, perché spesso io ero protagonista di piccoli incidenti domestici e chi era con me quasi mai. Ecco dunque perché il tema dell’accessibilità mi è molto caro. Rendere accessibile uno spazio, un contenuto multimediale, un libro o anche un’emozione, significa aprire le barriere e lasciar fluire la comunicazione. I miei sensi mi aiutano a rendere accessibile la realtà circostante. C’è l’olfatto. Se mi trovo davanti ad un panificio, lo capisco dal profumo delle brioche da poco sfornate, la stessa cosa vale per l’odore del caffè appena tostato che proviene dai bar. E col passare del tempo ho imparato a distinguere anche odori meno pronunciati, odori di cui magari una persona che vede ha rinunciato a causa della pigrizia olfattiva: riempie con la vista i significati di cui ha bisogno senza avere la necessità di indagare con il naso quella parte di informazione mancante. Un altro aspetto dell’accessibilità per chi non vede è il tatto. Tutte quelle manifestazioni a cui voi vedenti non siete abituati – o a cui siete abituati poco- per noi fanno la differenza. Passeggiare mano nella mano con una persona, prenderla sotto braccio, racchiudere le sue mani tra le mie, mi aiuta a delineare il suo linguaggio del corpo, carpendone aspetti caratteriali o stati d’animo che non sempre vengono espressi con le parole. Con il passare degli anni mi rendo conto che il linguaggio verbale viene sostenuto e integrato da immagini e da linguaggi non verbali: gestuale, mimico-facciale, posture del corpo. In contesti soprattutto formali è più complessa e meno inclusiva la relazione e l’interazione fra le perso ne con deficit visivo e gli interlocutori. Di questo tipo di linguaggi ne perdo una marea: se avessi un solo dito del mio interlocutore tra le mani potrei capire mille cose. Un osservatore attento si costruisce di necessità virtù: io mi devo appigliare a questo tipo di informazioni per conoscere chi mi parla. Il timbro della sua voce, l’intonazione, l’altezza, l’estensione e l’intensità acustica sono per me fattori di primaria necessità e descrivono l’essenza di chi mi sta di fronte. Nella comunicazione interpersonale l’espressione degli occhi, del viso, il sorriso, le posture che assume il corpo nello spazio e il feedback visivo sono percepibili in minima parte da chi non vede attraverso le variazioni della voce. Barriere che limitano la mia accessibilità a queste informazioni potrebbero ad esempio essere il fatto che il parlante è un fumatore (questo vizio distorce la naturalezza della voce), oppure il fatto che è un po’ raffreddato… Non solo la voce, ma anche suoni e rumori. Se ad esempio sono all’aperto, tutte le fonti sonore come il canto degli uccelli, le fronde degli alberi scosse dal vento, sono per me elementi che descrivono lo spazio in cui mi trovo. Quindi, l’orizzonte acustico di una collina mi permette di capire com’è fatto il suo pendio e qual è il suo panorama. Diversamente, se sono in un posto pianeggiante come una spiaggia o un prato, lo capisco perché l’orizzonte acustico mi restituisce segnali più circoscritti: vengono da una distanza minore e hanno un’altezza media diversa. In entrambe le situazioni, l’elemento maestro è il tatto plantare, che mi conferma le idee acustiche che mi sono creato in quanto è un ulteriore elemento descrittivo dello spazio in cui mi trovo. È una questione di esercizio. Non è vero che ci sento meglio, è che sono solo più allenato. L’idea che si forma nella mia mente grazie ai sensi residui potrebbe non corrispondere in parte o in toto al vero. Per questo è importante che ci sia mediazione attraverso l’immagine tattile e la descrizione verbale. il rapporto con gli altri è per me una grande declinazione dell’accessibilità: attraverso il racconto della realtà io posso formare nella mia mente l’idea di quello che mi circonda. Diventa importante verbalizzare le informazioni per descrivere gli oggetti. Chi vede raccogli di un oggetto colore e forma: la palla da calcio è per lui bianca e rotonda. Io invece raccolgo di quello stesso oggetto altre dimensioni: per me la palla è si rotonda, ma sarà più o meno liscia in base al materiale di cui è fatta, alle cuciture che la compongono… I sensi residui devono essere accompagnati da una buona memoria, che aiuta a collocare gli oggetti della vita intorno a me tra quelli già esperiti (e quindi conosciuti) e quelli nuovi. Ad esempio, quando percorro un tragitto, avere la mappa bene impressa nella mente me lo rende accessibile: so dove devo svoltare, l’approssimarsi di gradini da salire o da scendere. Riesco ad intercettare il pavimento sconnesso e a trasformarlo in un punto di riferimento per capire a che distanza mi trovo dalla mia meta. Inoltre è molto importante per le persone che perdono la vista mantenere le abilità manuali, mimico-facciali ed espressive acquisite, perché sono per l’interlocutore vedente un feedback visivo importante, stimolando e sostenendo la conversazione. Le persone che nascono con disabilità visiva devono acquisire tali espressioni ed imparare a usarle opportunamente nelle conversazioni. Nel mio mondo non manca la meditazione. Bisogna raccogliere col pensiero e creare con questo una realtà che abbia le dimensioni giuste per essere vissuta. In conclusione la comunicazione, quella vera, deve essere spontanea, naturale. Tra parlato e pensiero deve esserci una corrispondenza biunivoca altrimenti, come spesso noto, le incongruenze sono progressive e sempre più evidenti, a discapito della spontaneità, della fiducia e dell’amicizia riducendo la comunicazione a meri formalismi.

Nda: Ringrazio il mio amico Tony Amore per la condivisione della sua storia.


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.3, “ACCESSIBILITÀ”, NELLA SEZIONE LINGUAGGI — AGOSTO 2014

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