L’identità è un tema sfaccettato e in continua evoluzione; ci è sembrato doveroso dunque approfondire questo tema dal punto di vista del genere. In una società come la nostra, in cui la fluidità dei mezzi di comunicazione e di spostamento modifica le relazioni e rimodella i territori, parlare di identità di genere non risulta semplice né scontato. Lo hanno fatto con maestria e leggerezza gli autori di questo numero, ognuno da un punto di vista derivante da percorsi professionali, di vita o di interessi personale e assolutamente unico. Ci tengo a sottolineare che la pluralità di voci ci aiuta non solo a orientarci nella complessità del postmoderno, ma anche ad abbassare molte difese che il più delle volte sono inutili e reboanti. Nella teoria della integrazione sociale di Durkheim,[1] uno dei passi fondamentali nella descrizione antropologica dei gruppi sociali è la contrapposizione assoluta tra il sacro e il profano: l’opposizione tra l’individuo e la società stessa. La coscienza sociale è proiettata al di là e al di sopra dell’individuo; le norme della separazione sono i segni distintivi del sacro, tutto quello che da questo si allontana è l’area del profano. Come a dire: chi non rientra nelle classificazioni dogmatiche è peccatore, diverso, fuori dal coro. Per chi si occupa di cultura delle diversità, «vi sono parecchi modi di comportarsi di fronte alle anomalie. In negativo possiamo ignorarle, non percepirle affatto, o condannarle nel momento in cui le percepiamo. In positivo, possiamo deliberatamente affrontare l’anomalia e cercare di creare un nuovo modello di realtà in cui inserirla. Non è impossibile per un individuo a rivedere il proprio schema personale di classificazione».[2] Quella che i più classificano come anomalia, per molti invece è l’essenza stessa della propria identità; anomalia, dal greco ἀνωμαλία, è una «irregolarità, difformità dalla regola generale, o da una struttura, da un tipo che si considera come normale». Il normale è un canone del tutto arbitrario, frutto di convenzioni sedimentate nel tempo e valide solo all’interno del gruppo sociale in cui sono condivise. Ecco allora che, per l’inclusione di ogni sé possibile, si ha necessariamente bisogno di un nuovo modello che accolga in sé il fenomeno — ovvero il manifestarsi — delle diverse identità, che porti alla luce i molti modi in cui un’anima, rinchiusa in uno o in un altro corpo, possa esprimersi. Rispetto al genere, questa possibilità di espressione — fluida ed elastica — oltrepassa il modello binario cui siamo abituati, aprendo un caleidoscopio di possibilità, varie e mutevoli, della cui forma non resta che l’impresso della molteplicità. È un dato di fatto: indispensabile dunque un riadattamento e una sostituzione dei modelli di pensiero tradizionali con altri che fuoriescano da schemi precostituiti evidentemente troppo stretti. È un lungo percorso costellato da riflessioni linguistiche e comportamentali, prima che culturali. In fondo, poi, è così importante per voi incollare un’etichetta alla persona che avete di fronte — o accanto —, come se fosse un barattolo di marmellata? Magari scopriamo che sono buone anche le marmellate fatte in casa, di quelle che riempiono barattoli di vetro trasparente con un cartoncino scritto a mano, proprio nel momento del confezionamento. Che di more, di mirtilli, di limoni o di lamponi, purché sia.
PER APPROFONDIRE
[1] Émile Durkheim: Le forme elementari della vita religiosa — Edizioni di comunità — 1963
[2] Mary Douglas: Purezza e pericolo — il Mulino — 1970
Martin Heiddeger: Essere e tempo — Mondadori — 2017
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N. 22, “GENERE”, NELLA SEZIONE EDITORIALE — APRILE 2021
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