È molto difficile rintracciarlo per via dei suoi mille impegni, ma quando ci riceve, riesce in un solo minuto a rompere il ghiaccio, leggere le domande proposte e complimentarsi per la non banalità delle stesse. Con la promessa di risponderci presto, garbatamente si lascia immortalare con la copertina di un vecchio numero di Orione, poi ci saluta e torna ai suoi impegni. Insieme a educatori e professionisti, Moreno lavora duramente per lottare contro la dispersione scolastica, che a Napoli tocca punte del 35 per cento. Il dato complessivo Censis è allarmante: il 23 per cento di giovani tra i 18 e i 24 anni sono del tutto emarginati: non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione professionale.
Dalla Sua esperienza, da cosa dipende questo dato?
La presenza di un così alto numero di giovani ‘disimpegnati’ è la dimostrazione più evidente della incapacità della generazione adulta attuale di offrire ai giovani un mondo in cui c’è posto per loro. Che il lavoro sia scarso è un dato di fatto imprescindibile ma qui c’è qualcosa di più, c’è la perdita di speranza e la perdita di tensione creativa, lo sviluppo di una indifferenza esistenziale per la propria sorte. Questo dato dimostra il fallimento del sistema educativo nel suo complesso, dell’educazione familiare, dell’istruzione scolastica, della formazione professionale degli innumerevoli progetti che vengono realizzati per combattere la dispersione scolastica. Non basta offrire istruzione occasioni formative, luoghi di aggregazione, ciò che serve è offrire occasioni significative, proposte che consentano ai giovani di esprimersi, che li faccia sentire vivi, e che gli altri li considerino importanti. Questo viene solo dall’esistenza di comunità, di gruppi umani solidali capaci di offrire sostegno e conforto ad ogni membro soprattutto quando ci si trova di fronte a difficoltà insormontabili.
Come impiegano il loro tempo questi giovani? Non sono a scuola, non vanno a lavoro…
Lo stesso concetto di impiego del tempo è inadeguato a descrivere questa realtà. La nostra esperienza è che questi giovani sono accompagnati da una sorta di nausea permanente, di disgusto per ogni proposta di cambiamento che complessivamente chiamiamo noia esistenziale, inappetenza alla conoscenza e all’iniziativa, uno stato di assenza di desiderio che è vicino ad uno stato depressivo vero e proprio e da cui si esce solo con occasionali sensazioni forti. Questo stato di passività è espressione di una emarginazione interiore che è la madre di ogni altra emarginazione, che è l’origine di ogni dipendenza.
Cosa rappresenta secondo la Sua visione il lavoro nella vita di una persona?
A me interessa il significato umano del lavoro e non solo la sua utilità. Il lavoro nella sua accezione originaria era necessario a procurarsi da vivere, ma al tempo stesso era il veicolo di partecipazione sociale e di cura per gli altri. Poter lavorare quindi significa poter essere parte di una relazione sociale significativa, di sentirsi utili e significativi per gli altri. Nel momento il cui il valore del lavoro non è più quello relazionale ma quello monetario, abbiamo perso il significato relazionale del lavoro e quindi abbiamo lasciato le giovani persone che non percepiscono reddito da lavoro abbandonati ad uno stato di anomia che non può produrre nulla di buono. Il nostro problema oggi è di trovare per i giovani occasioni di impegno che rendano significativa l’esistenza per sé per gli altri e queste non derivano necessariamente solo dal lavoro.
In che modo il mondo del lavoro può intendersi come il naturale prosieguo della scuola e del lavoro educativo degli insegnanti e dei formatori? O più semplicemente, la scuola di oggi prepara al mondo del lavoro?
Io non credo che la scuola dovrebbe preparare in primo luogo al lavoro. Credo che la scuola e l’educazione dovrebbero aiutare ciascuno a realizzare se stesso, a diventare pienamente umano imparando a utilizzare ogni propria risorsa. Il lavoro nella sua forma salariata, è solo una delle tante forme in cui una persona nella vita utilizza le proprie risorse. La scuola attualmente non è molto consapevole di quale sia il suo ruolo e molti vorrebbero legarla al mondo del lavoro come fosse un’ancora di salvezza, ma non è così, la scuola deve rassegnarsi oggi ad avere un ruolo solitario e controcorrente rispetto alle culture dominanti.
Quali sono le difficoltà principali che si incontrano facendo il Suo lavoro? Come fa ad avvicinare i ragazzi per strada? Qual è la leva che utilizza, poi, per convincerli a scegliere la propria strada? In questo processo, che ruolo hanno le istituzioni, la famiglia?
Incontrare le persone per strada oggi è soprattutto una metafora che è più difficile da realizzare che non l’incontro su una strada vera e propria. Incontrare le persone è in generale difficile perché ognuno ha una maschera sociale — persona deriva dal termine latino per maschera — e gli operatori delle divise professionali che impediscono il contatto autentico, impediscono di entrare nello spazio delle emozioni dove alloggiano il timore, la diffidenza, la sfiducia. Il maestro di strada, ma io ritengo qualsiasi altra persona svolga una professione in cui è implicata la relazione, per fare il suo lavoro deve passare per una fase di ascolto e di osservazione in cui la risorsa più preziosa è il silenzio e l’auto osservazione. Il silenzio trasmette all’altro il senso di un ascolto attento e partecipe, l’auto osservazione consente di sentire dentro di sé le risonanze che l’incontro con l’altro mette in movimento. Per avere un incontro vero con l’altro è indispensabile una fase mistico-contemplativa: riconosciamo l’altro solo quando siamo riusciti a riconoscere dentro di noi le emozioni dell’altro; nel nostro lavoro noi prestiamo la nostra mente per elaborare ciò che l’altro non riesce ad elaborare per restituirlo in forma bonificata. Alle istituzioni e alle famiglie noi chiediamo e organizziamo ‘il villaggio’ senza il quale nessun lavoro individuale funziona: per educare una persona ci vuole un villaggio intero. Un villaggio è una comunità che non è sinonimo di ‘équipe interprofessionale ma è sinonimo di professionisti che sono legati da una solidarietà umana prima che da regole professionali. Senza un ambiente umano caldo non è possibile sostenere i giovani nella fatica di crescere.
Cosa si potrebbe chiedere alla politica, intesa nel senso di chi gestisce l’organizzazione istituzionale e i budget, per migliorare la situazione?
A chi gestisce i budget, che non sono solo i politici ma anche le fondazioni, le cooperative e quelle organizzazioni che ormai gestiscono il dieci per cento del PIL, io chiedo di studiare, di rendersi conto che qualsiasi lavoro sociale, che produca socialità solidale è fondato sulle risorse interiori della persona e che il benessere degli operatori è il loro principale strumento di lavoro. Avere un vasto settore di lavoratori sociali connotato dalla precarietà, dall’assenza di adeguate misure di supporto alla persona, governato come una fabbrica fordista di cento anni orsono è un vero e proprio crimine educativo che produce malessere sociale piuttosto che coesione e inclusione.
C’è qualcosa che è importante raccontare che io non Le ho chiesto?
Vorrei aggiungere che di tutte le cose che si possono dire del lavoro educativo la perseveranza e la tenacia sono le doti principale da affermare contro ogni evidenza contraria. Bisogna resistere un minuto in più del potere, un minuto in più di tutte le correnti contrarie.
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QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.18, “LAVORO”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — DICEMBRE 2019
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