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Intervista a Carlo Ratti. Il suo nome compare tra i Names You Need to Know di Forbes e i Best & Brightest dell’Esquire. È nella lista delle 50 persone che cambieranno il mondo secondo Wired e tra i 50 designer più influenti in America secondo Fast Company, oltre a essere anche tra i 60 innovators shaping our creative future per Thames & Hudson.

Vi sto parlando di Carlo Ratti, talento italiano a cui abbiamo pensato quando abbiamo iniziato a parlare dell’organizzazione urbana per preparare questo numero sulle periferie. Carlo Ratti è da sempre concentrato sull’idea di un’architettura che percepisce e risponde, fondata sull’utilizzo di tecnologie intelligenti per una progettazione smart, senza però dimenticare il lato umano della questione. I mezzi di comunicazione e di trasporto, con le evoluzioni dell’ultimo secolo, hanno annullato le distanze tra i concetti di locale e globale, andando a svalutare lo spazio, in quanto prossimità fisica e frequenza degli scambi comunicativi non devono necessariamente vivere qui e ora per esistere. Gli abbiamo posto alcune domande nell’intervista che segue. Buona lettura!

Se lo spazio venisse considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni, quindi come una rappresentazione a priori che è a fondamento dei fenomeni esterni, in che modo la progettazione influirebbe sull’evoluzione sociale?

La progettazione ci permette proprio di trasformare lo spazio – e di conseguenza la società. Diceva Churchill: «Noi diamo forma ai nostri edifici, ed essi a loro volta danno forma a noi».

Nell’organizzazione dello spazio, il soggetto esiste nei suoi rapporti con le cose, ed è dominato dalla dicotomia vicino-lontano, che in termini urbani si potrebbe tradurre in centro-periferia. Quanto influisce nella vita contemporanea l’abitare uno spazio piuttosto che un altro?

Il contesto in cui abitiamo influisce molto sulle nostre vite — come dicevamo prima. Tuttavia le nuove tecnologie permettono di creare nuove centralità. Nei mesi del Covid per tutti coloro che hanno potuto lasciare le città potremmo dire che la periferia è diventata il nuovo centro.

Viviamo con un desiderio di un ritorno e di una valorizzazione delle periferie, connotate di nuovi — ma antichi — significati, come il rispetto del tempo, dei ritmi delle stagioni e della natura. Centri e periferie si sono svuotati del senso originario, per andare a ricostruire nuove storie e nuove relazioni. In che modo oggi le periferie possono dialogare con il centro?

Il tema della natura potrebbe proprio essere un forte trait d’union, capace di creare nuovi equilibri tra spazi centrali e periferici. Mi viene in mente la biofilia, quel richiamo innato verso il mondo naturale teorizzato dal mio collega biologo di Harvard Edward O. Wilson.  
 
Si assiste già da molto al fenomeno della gentrificazione, dove se da un lato con la riqualificazione urbana dei sobborghi decentrati — penso ad esempio ai quartieri spagnoli di Napoli, “periferia centrale”, che non sono più Bronx e rientrano anche in molti percorsi turistici — vi è una conseguente valorizzazione dei contesti, dall’altro lato si assiste all’allontanamento da queste zone di chi non può più permettersi il nuovo costo della vita. Come concordare la valorizzazione con il sostentamento popolare?

Fondamentale partire dalle comunità prima che dai valori immobiliari, e mettere in atto politiche di compensazione per proteggere le fasce più deboli. Non dobbiamo mai dimenticare che l’urbs — la città costruita — è indissociabile dalla civitas, la comunità dei cittadini.

Da un punto di vista dell’inclusività — penso alle fasce fragili della popolazione, come ad esempio alle persone disabili, povere, agli stranieri o semplicemente alle persone che rappresentano una diversità — come impegnate voi progettisti il concetto di accessibilità? È realizzabile o siamo destinati a lasciare queste persone in periferia?

Credo che sia realizzabile. Fondamentale partire dal concetto di Droit à la ville, Diritto alla città, espresso dal filosofo sociologo francese Henri Lefebvre negli anni Sessanta. In questo senso a me piacerebbe pensare a un sistema di quote, magari basate su compensazioni economiche, per far sì che in ciascun quartiere siano rappresentate le diverse fasce della popolazione. Come progettisti inoltre possiamo lavorare sugli spazi pubblici, che svolgono una funzione fondamentale: consentono l’incontro tra le diverse comunità e ci permettono di ricomporre eventuali fratture sociali.
 
So bene che ogni progetto deve rispondere a mancanze peculiari e per funzionare deve trovare delle soluzioni pertinenti al singolare tipo di problema e di contesti — territorio, cultura, società — ma esistono dei criteri, dei valori, dei principi, generali o universali da tener presente quando si disegna?

La parola progetto deriva dal latino projectus — gettato in avanti. Pertanto è, per sua natura, orientato al futuro. È fondamentale quindi partire da una visione condivisa del domani, cercando di farla atterrare nel presente.
 
Come immagina la città ideale? Quella che, se non ci fossero vincoli di alcun tipo, le piacerebbe proporre e costruire.

Sarebbe una città immaginaria. George Perec, grande scrittore francese, nel suo libro Espèces d’espaces, immagina un appartamento in cui ogni stanza si affaccia su un diverso arrondissement di Parigi. In modo simile, mi piacerebbe una città con la topografia di Praga, lo skyline di Manhattan, le piazze di Milano e la diversità etnica di Rio de Janeiro!


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.20, “PERIFERIE”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — AGOSTO 2020

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