Il suo Francesco da Buenos Aires – La Rivoluzione dell’uguaglianza, film documentario del 2014 diretto insieme a Miguel Rodriguez Aias, ci ha commosso ed emozionato: il racconto di un papa come Bergoglio è una grande responsabilità. Abbiamo scelto di intervistarlo perché può aiutarci a capire qual è l’importanza del racconto cinematografico non solo dal punto di vista emotivo e letterario, ma anche dal punto di vista tecnico. Lo abbiamo incontrato nella splendida cornice napoletana, dove oggi vive e lavora; ci ha colpito molto la sua fresca e immediata disponibilità, data anche dalla sua grande vicinanza alla comunicazione sociale.
Le tecniche narrative proprie del cinema differiscono da quelle degli altri linguaggi; perché sono più (o meno) coinvolgenti nella diffusione del messaggio dell’autore?
Le tecniche narrative sono elementi che bisogna saper padroneggiare bene, altrimenti corriamo il rischio che la nostra storia non riesca a stare in piedi da sola. Proviamo ad immaginare un palazzo: se nelle fondamenta o nella struttura è presente una falla, questo potrebbe crollare su se stesso nonostante la solida apparenza esterna. La stessa cosa vale per le opere di narrativa, sia cinematografica sia di altro genere. Probabilmente il cinema riesce ad essere più coinvolgente nella diffusione del messaggio dell’autore perché, come diceva molto bene Akira Kurosawa, racchiude in sé molte altre arti, avendo caratteristiche proprie della letteratura (sceneggiatura), del teatro (messa in scena e recitazione) ed elementi della pittura (fotografia e composizione dell’inquadratura) e della musica (colonna sonora).
Qual è la molla che scatta nel regista quando decide di raccontare una storia piuttosto che un’altra?
Nel mio caso è perché penso che quella storia serva, sia utile, a volte necessaria. È nel valore del bisogno che trovo i motivi del perché siamo attratti dalle narrazioni. Karen Blixen ha scritto: “Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia, o si racconta una storia su di essi.” È una conferma che raccontare vuol dire trasferire in una storia il bisogno di elaborare un’esperienza – anche se non necessariamente dolorosa – e soddisfare il desiderio di condividerla in modo autentico. In un’esperienza c’è sempre un prima, un durante e un dopo e non si può negare che, se vissuta consapevolmente, se ne esca trasformati – non dico cambiati. Una storia “funziona” o ha successo quando sa ben testimoniare – attraverso un percorso – che è possibile una trasformazione: di un punto di vista, una scelta, una decisione, un modo di vedere la realtà e la propria esperienza, perfino la propria vita. A tal proposito ricordo un passo di Adriana Cavarero: «Il sé non progetta il suo destino, né lo segue, piuttosto lo trova nel racconto altrui, riconoscendo in esso, con una certa sorpresa gli atti della propria vita». Una storia che non racconta l’evoluzione di un’esperienza non appassiona, non prende, e non serve mettere in campo l’empatia, la capacità di scrittura… nulla può contro la noia. Il valore di una storia – che la si chiami racconto, narrazione o storytelling – sta nell’uso che ne facciamo oltre che nel come la raccontiamo e bisogna tenerne conto perché non smetteremo mai di raccontare e cercare storie: sono indissolubilmente legate al nostro bisogno di conoscenza. Conoscere e riconoscere, riflettere e sperimentare sono in fondo le facoltà che ci aiutano ad evolvere, ad alimentare la nostra creatività e – come ricorda Giovanna Cosenza – a dare senso alla nostra vita.
Noi ci occupiamo di sociale, diverso, di muri da abbattere e barriere da scavalcare. Il cinema può essere il linguaggio giusto per raccontare queste storie? Per quale motivo? Qual è, se c’è, una premialità rispetto agli altri linguaggi?
Sicuramente sì. Il cinema ha il dovere di raccontare storie e se è un bel cinema vince sempre e arriva a tutti indistintamente. Con il cinema si possono trasformare fenomeni sociali o problemi pubblici in storie di persone che, altrimenti, sarebbero stati raccontati solamente attraverso semplificazioni, stereotipi e ruoli sociali o politici. Il cinema può, se fatto con attenzione umana, restituire alle persone la loro identità, la loro storia, senza schiacciarle dentro ruoli preconfezionati, e questo permette poi allo spettatore di riflettere meglio su che cosa vive nella sua vita e su che cosa il ricorso alla tipizzazione gli impedisce di capire.
Rispetto ad un film ci sono diversi gruppi di persone: chi lo guarda, chi lo produce (economicamente e materialmente), chi lo interpreta… A volte per chi lo guarda ha una dimensione di cura: aggrega comunità, crea discussione e confronto, sviluppa senso critico, stimola l’empatia verso storie altre; senza dubbio emoziona. Come vengono vissuti questi aspetti del cinema da chi sta dall’altra parte?
Truffaut in Effetto notte – il film che da ragazzino mi ha fatto innamorare del cinema – dice, attraverso il personaggio di Ferrand: «La lavorazione di un film somiglia al percorso di una diligenza nel Far West: all’inizio uno spera di fare un bel viaggio, poi comincia a domandarsi se arriverà a destinazione». Anch’io vivo con ansia tutta la lavorazione. Spesso quando sono a metà di un documentario mi sembra di aver sbagliato tutto. Per fortuna, mi dico, ho ancora tempo per evitare di sbagliare anche l’altra metà. Alla fine del montaggio vorrei rifare tutto daccapo ma, fortunatamente, il mio produttore e il mio montatore riescono sempre a convincermi che il lavoro va bene così com’è. L’ansia mi passa solo alla fine della prima proiezione pubblica.
Cosa ti aspetti dal cinema? Cioè, perché lo fai?
Per la verità il mio sogno era diventare un pilota di aerei ma occorreva troppo studio e tenacia e quindi ho preferito fare il regista perché – come dice Paolo Sorrentino: «Ho scoperto che è un lavoro dove si può fare tutto, un po’ male!». Scherzi a parte, racconto storie per condividere un’esperienza emotiva con altre persone. Il cinema è un’esperienza privata e, al tempo stesso, condivisibile: un necessario viaggio comune. Numerosi studi di psicologia del cinema confermano che l’emozione è un ingrediente essenziale della narrativa, e se non sperimentiamo emozioni siamo meno coinvolti nella storia, o addirittura la respingiamo. E questo, non è un caso, è vero anche nella vita reale.
C’è qualcosa di rilevante e pertinente che ti sarebbe piaciuto raccontare ma che io non ti ho chiesto?
No, il tuo lavoro è perfetto, rischierei di rovinarlo.
Nonostante io sia sempre un po’ timorosa nell’accettare complimenti, alla fine gli sorrido, non perché davvero il mio lavoro sia perfetto, ma perché mi sento compresa. In fondo, entrambi raccontiamo storie.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.11, “IL CINEMA”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — APRILE 2016
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