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Mi faccio coraggio, le scrivo un messaggio su Facebook, perché non riesco a trovare la sua mail privata. Lei non solo mi risponde, ma si preoccupa anche di organizzare l’intervista nel più breve tempo possibile, per rispettare la data di scadenza come da brief.

Lei ha vissuto ad Agrigento fino ai dodici anni, oggi vive a Londra dal 1972, dove fonda il primo studio legale in Inghilterra che pensa a dedicare un dipartimento ai casi di violenza all’interno della famiglia, oltre che ad occuparsi prevalentemente di comunità musulmane e nere. Quando le telefono, nessun convenevole: entriamo subito nel vivo della mia intervista. Sono a telefono con Simonetta Agnello Hornby: la conosciamo anche per aver scritto, tra gli altri, Caffè amaro, caso letterario dell’anno. Pragmatica, lavora come avvocato e come scrittore per ottenere quello che vuole. «Quello che voglio in tribunale, è che il giudice ascolti, e spero che accetti le tesi del mio cliente», mi confida senza mascherare la sua forte determinazione; «quello che voglio con i miei libri è che chi legge ascolti quello che scrivo, guardando la situazione dal mio punto di vista, e poi prenda le sue decisioni». Lei mette la mente anche quando cucina. Schiva, non ama la fama. Una donna dai grandi contrasti: fuori dalle righe -forse l’unica donna in città a quei tempi a fumare la pipa in pubblico-, le piacerebbe molto non essere riconosciuta per strada, perché così si sentirebbe più libera di agire. Anche se io non ho alcun dubbio che lei faccia comunque quello che vuole: infatti, mi confessa «hanno dovuto insegnarmi la timidezza». Se le chiedi del futuro, lei non sa dove andremo a finire. Ma sa dove siamo e «siccome io sono pratica, cerco di rendere la vita un po’ migliore ora, a tutti, per come siamo».

Quanto l’autore si allontana dal reale o vi si immerge per esprimere una nuova parola? Gianni Celati ad esempio parla di fantasticazione come atto fondamentale al vivere umano. Qual è il grado di contaminazione tra la memoria del reale e l’immaginazione?

Ho lavorato felicemente come avvocato fino ai cinquantacinque anni e poi mi è venuta la Mennulara in mente, come se fosse stato un film. Mi allontano dal reale quando devo. Scrivo quando ho tempo. A volte faccio una passeggiata e penso al romanzo. Questa frase, “fantasticazione come atto fondamentale del vivere umano”, non la capisco. Tra il lavorare e lo scrivere la differenza non è molta. Se per esempiofaccio un lavoro di cucito, mi immergo nei ricordi e nell’immaginazione e non penso al filo. La Mennulara (ndr, il romanzo d’esordio del 2002. tradotto in 19 lingue) Il libro, che ha ricevuto vari premi italiani e stranieri è nato con un’illuminazione: io ero in attesa di salire su un aereo e ho iniziato a vedere la storia nella mia mente. Non ho mai dimenticato il consiglio del mio primo editore, Alberto Rollo. «Devi permettere al lettore di immaginare», una cosa per me difficilissima, abituata a descrivere nei dettagli i fatti.

Ci sono dei luoghi privilegiati per produrre la letteratura? Luoghi antropologici, pregni di significazione relazionale, identitaria e storica, che conciliano l’autore col compito di produrre l’immaterialità della parola.

Io scrivo dovunque. Avevo tanto da fare perché facevo ancora l’avvocato. Appena trovavo una mezz’ora libera, scrivevo il film che avevo visto con la mente. Se avevo più tempo facevo le scene più complicate.

Il periodo in cui viviamo è caratterizzato da una grande instabilità sociale e identitaria che espone continuamente l’individuo a situazioni di rischio, rendendolo vulnerabile, richiedendogli degli sforzi per allinearsi a equilibri di volta in volta nuovi. Come si inserisce la letteratura in questo contesto?

Con la mia letteratura non si esce dalla realtà. Il mondo che io descrivo è spesso brutto: non c’è giustizia. Non scrivo per creare un mondo più bello e più giusto dove mettere i miei personaggi. Io racconto ingiustizie, il mio obiettivo è quello di informare, intrattenere ispirare e dare speranze. Vivo di speranza. Chi legge deve decidere quello che vuole.

Qual è il rapporto dello scrittore con la parola? La scrittura aiuta a capire le cose? Se è una cura, chi scrive come se lo vive questo rapporto con la scrittura? Qual è il ruolo dello scrittore in questo processo di cura? La cura stessa è una forma di ossessione/malattia?

Cerco di non scrivere mai un libro per dare piacere e basta. Io scrivo anche messaggi. È una responsabilità atroce, cercare di dare i messaggi giusti, fare del bene a chi legge. Sono soddisfatta del mio ruolo di avvocato, ma non di quello di scrittore. ho ancora tanto da imparare. Voi intellettuali usate belle parole, ma io non le conosco. Mentre scrivevo la Mennulara, ho avuto la bruttissima notizia della diagnosi di mio figlio (ndr, sclerosi multipla primaria progressiva). Io feci di tutto per dimenticarlo, ma non ci riuscivo. Qualunque cosa facessi, non riuscivo a dimenticare. Invece scrivendo lo dimenticavo, perché entravo nel mondo dell’immaginario. E mi dimenticavo, per cui ho scritto per dimenticare. Sappiamo tutti che la lettura trasporta in altro mondo lontano dalla realtà. Ho imparato, scrivendo, che scrivere da anche sollievo e piacere, tanto quanto leggere. Così avviene anche quando una qualsiasi cosa – un fiore, un insetto, una vetrina- concentra l’immaginazione. Ad esempio, io disegno. Disegnando si può anche dimenticare, perché ci si immerge in quello che si fa. Impegnare mente e mano.

Non esistono bene e male, per lei. Crede nella giustizia — di cui fa parte anche l’amore per la vita e per gli altri, Simonetta Agnello Hornby: per lei è un dovere. La giustizia c’è perché il mondo non è perfetto: «non possiamo vivere insieme e amarci senza giustizia. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro». Mi piace pensare che, anche grazie a tutte le storie che ci raccontiamo, che ci racconteremo, avremo un mondo più giusto, un giorno o l’altro.


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.9, “LA LETTERATURA”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — APRILE 2016

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