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In un piovoso pomeriggio di febbraio, chiamo la mia amica Simona e le chiedo di accompagnarmi a Bologna per l’intervista a Massimo Tagliata.

Sì, proprio lui, il tipino siciliano di nascita ma emiliano di adozione, che suona il pianoforte, la fisarmonica con Biagio Antonacci, e fa il produttore. Massimo ha iniziato a fare musica perché la musica ad un certo punto è arrivata, forse per caso, nella sua vita. Anzi, è lei che lo ha scelto. Nell’estate del 1986, a soli tredici anni, accetta un contratto per 90 serate con un’orchestra di liscio.

Devo tantissimo a mia madre e a mio padre, sono loro che mi hanno invogliato e supportato sin da giovanissimo.

Inizia così il suo racconto, affiancato dal primo ricordo all’inizio della carriera:

Non fui preso al conservatorio: mi dissero che avevo scarsa musicalità. In realtà era un modo per dirmi che non avrebbero inserito una cattedra con un insegnamento speciale. Poi dopo mi sono tolto la soddisfazione di lavorare con i conservatori italiani.

Perché suoni?

Perché ti accorgi che la musica ti da tutto senza chiederti niente in cambio. Ti chiede solo di esserci. L’arte ti arriva perché ti arriva. Anche le parole. Le canzoni, la musica. Ti arrivano.

La musica abbatte le barriere?

Io credo che le barriere vengano abbattute con la conoscenza, lo studio, la competenza. Approfondire i generi musicali che interessano e quelli che non si conoscono è un buon modo per ampliare gli orizzonti.

Come si fa a essere un buon musicista?

Io non credo che il fatto che non ci vedi ti aiuti a diventare un musicista migliore. La cecità non c’entra nulla. Ci sono questioni caratteriali che sono fondamentali per saper fare una cosa e farla bene. Bisogna studiare, c’è bisogno di competenza, di impegno, di sacrificio. Bisogna spendere il proprio tempo per se stessi prima dell’attesa del risultato, e non solo in funzione del risultato. Ci scontriamo con un mondo non preparato alla velocità con cui va. Ci sono differenze nell’approccio alle cose.

Il mondo della musica è flessibile alla diversità?

Ho sempre trovato una grossa accoglienza nel mondo della musica e dell’arte in generale. L’ambiente della musica è sempre riuscito ad abbattere abbastanza bene le barriere. Il mondo dell’arte è più predisposto alla diversità: “non è uguale ma mi piace, è diverso ma va bene”. Altre discipline hanno ancora da imparare dal mondo musicale e artistico. L’etichetta conta, ma fino a un certo punto.

Come si lavora su se stessi?

Ti accorgi a un certo punto che hai delle paure di vita e pensi che siano legate alla tua disabilità o a quello che la tua disabilità pensi che ti abbia lasciato in eredità a livello di insicurezza. Poi scopri che non è vero, che queste paure le hanno tutti. Tutti abbiamo paura di non farcela, tutti abbiamo paura di non aver fatto la cosa giusta… anche tu, non ti sei mai chiesta se avevi imboccato la strada giusta? Non bisogna convincersi che questo tipo di problemi derivi dal fatto che non ci vedi.

A parlar con te mi sembra che sia tutto semplice. Hai paura di qualcosa?

Non è semplice. È che le cose si possono fare. Non ho paure legate alla mia condizione, perché ho fatto pace col fatto di non vederci. Io sono quello che sono oggi anche perché non ci vedo. Non dico che questa sia diventata la mia forza ma è sicuramente una parte di me. Questo mi ha messo il sereno. L’accettazione della realtà è fondamentale. Inoltre, bisogna imparare a gestire i propri sensi con consapevolezza. Questo è un lavoro per chi non vede – ma è difficile anche per chi ci vede (ndr).

Quante difficoltà ci sono nel mondo di oggi?

Purtroppo ci scontriamo con un mondo che non è per niente preparato alla velocità con cui va. Ci sono delle differenze talmente grandi tra le sensibilità delle persone che spesso è agghiacciante. Vedere quanta differenza c’è nell’approccio alle cose. Se apriamo quella porta e fermiamo una ragazza di 30 anni, non penserebbe mai di partire da 600 km per venire a fare un’intervista qui, capisci? Sono visioni diverse di come uno pensa di volersi arricchire, di come pensa di poter farsi migliore. Quando tu fai un lavoro e non sai perché lo stai facendo. Questa è la cosa più grave. Capisci?

Qual è il consiglio che dai ai ragazzi di oggi?

Mantenere una parte di sé semplice, facile. Non avere la vista è sicuramente un problema, ma se lo viviamo più grande di quanto non lo sia, ne creiamo tanti altri. La fortuna di avere molti mezzi di comunicazione in casa non li fa uscire. I ragazzi parlano con mezzo mondo ma non c’è un rapporto di vicinanza, di contatto, di prossimità fisica. Vedo nei ragazzi che non vedono un po’ di paura verso la realtà. Smitizzate le cose e sdrammatizzatele. Uscite, toccate, conoscete, annusate. Vivete!

Io sono arrivata nello studio di Massimo grazie ad un amico di un mio amico, Angelo, una cosa tipo quelle catene di persone che sembrano infinite e non sai dove iniziano e dove finiscono. Una coincidenza del tutto fortuita, ma che mi ha confermato ancora una volta che il mio lavoro è bello perché produce ricchezza — sia ben chiaro, non quella intesa nel senso capitalistico del termine. Quella ricchezza che deriva dalle relazioni, dai contatti tra le persone, dall’impagabile forza di una persona che ti racconta la sua storia, scavalcando le distanze spazio temporali.


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.5, “LA MUSICA”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — APRILE 2016

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