La ratio del legislatore era quella di proteggere il lavoratore, individuato come parte più debole del rapporto di lavoro, portando l’attenzione sulla libertà e dignità dell’individuo sul posto di lavoro, tutelandone, tra l’altro, la sfera della personalità morale. Il lavoro dovrebbe essere manifestazione di libertà, [1] raramente però nella storia si sono create condizioni tali da far diventare il lavoro attraente e costituire così l’autorealizzazione. Il fatto innegabile è che lavorare serve: non solo per esseri autonomi e quindi per la soddisfazione delle necessità di vita. Lavorare serve anche e soprattutto all’anima: fare il lavoro dei sogni significa incontrare il proprio desiderio e dunque autodeterminarsi in base a questo. Che il lavoro sia un’attività connotata dal fortissimo dualismo onirico-reale è chiaro: tra i principali argomenti di descrizione del sé compare senza dubbio la narrazione del ruolo che occupiamo nel mondo del lavoro; anche quando facciamo amicizia con un bambino, la terza (o quarta) domanda che gli poniamo è che vuoi fare da grande? I bambini offrono una risposta relativa alla loro identificazione sognata — che spesso rimarrà tale nel percorso di studi, ancora durante i tirocini e almeno fino a quando il naso non sbatterà contro le porte chiuse dei no dei colloqui. Non sempre i contesti sociali, economici, culturali e giuridici consentono l’accesso al proprio desiderio di realizzazione e di aspettative di vita; basti pensare alla precarietà, alla dismissione del welfare.[2] Di fatto, l’introduzione nel linguaggio e nella giurisdizione di categorie protette, di norme e leggi che tutelino le frange più fragili, indica una grande lacuna sociale e culturale ancora da colmare. Il mercato del lavoro richiede molte competenze, un alto grado di flessibilità, una dose infinita di disponibilità — essere sempre e ovunque, in accordo con la modernità liquida già raccontata da Bauman. [3] Questo comporta l’incremento delle libertà individuali in funzione di una più ampia scelta grazie al potere economico e di spesa. L’altra faccia della medaglia è però rappresentata da una concezione radicalmente individualistica dell’esistenza umana, che rende l’individuo prigioniero del consumismo — e quindi del suo stesso lavoro — a scapito del contesto relazionale. Quindi, se è vero che l’organizzazione del lavoro è un pilastro della qualità della vita in ogni tipo di società e nell’evoluzione della stessa, [4] è anche vero che il lavoro non può essere ridotto semplicemente al valore di scambio che genera con la produzione del bene o servizio; anzi può e deve essere un ambito in cui venga coltivata e valorizzata la dignità della persona in funzione della sua crescita morale. Il lavoro produce capitale, ma i soldi non sono una realtà oggettiva dal valore oggettivo: pezzi di carta o di metallo, non si possono mangiare né bere, o indossare. Il denaro può essere utilizzato negli scambi in funzione del valore simbolico — per dirla alla Harari, è la storia di maggior successo mai inventata e raccontata dagli uomini, perché è l’unica storia cui credono tutti. Viviamo in una realtà oggettiva sulla quale col passare del tempo, grazie all’immaginario, abbiamo costruito le narrazioni dal valore simbolico che detengono la maggior parte dei poteri che regolano gli equilibri socioeconomici. Per reinventare un sistema sociale ove vi sia redistribuzione di equità e diritti, bisogna — è urgente — pensare di costruire una narrazione che produca valore sociale, promuovendo e sostenendo il capitale umano.
NOTE
[1] Karl Marx: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica — Pgreco — 1968
[2] Anna Simone: I talenti delle donne — Einaudi — 2014
[3] Zygmut Bauman: Vita liquida — Laterza — 2008. Sul tema, dello stesso autore: Consumo, dunque sono — Laterza — 2010 e (con Chiara Giaccardi e Mauro Magatti) Il destino della libertà. Quale società dopo la crisi economica — Città nuova — 2016
[4] Adam Smith: Indagine sulla natura e la ricchezza delle nazioni — Utet — 1975
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.18, “LAVORO”, NELLA SEZIONE EDITORIALE — DICEMBRE 2019
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